Mi avvicinai per la prima volta alla letteratura cinese nel 2000, ero in prima liceo, e allora Internet non era veloce come lo è oggi. Sono di quella generazione che, anni più tardi, Zerocalcare avrebbe definito "i martiri del 56k". Cose che a pensarci ora fanno sorridere, ma ancora, l'unico modo per farsi l'idea di un libro era spendere del tempo in libreria a leggere le quarte di copertina. È così che mi sono imbattuta in un libro di una giovane scrittrice cinese il quale, a quanto pare, fece un tale scalpore nel Paese d'origine da meritarsi la censura. Il che non evitò che fosse ampiamente distribuito sul mercato nero o nei circoli underground, e questo attirò l'attenzione dell'Occidente eurocentrico. Il libro in questione si intitola Shanghai Baby, di Zhou Weihui: un romanzo sulla vita di una giovane scrittrice di Shanghai divisa tra l'amore platonico per il suo ragazzo e l'amore carnale per il suo amante tedesco. Anni dopo, ne è stato tratto anche un film. Il libro riscosse i pareri più contrastanti, dai ragazzi che lo amavano, ai sinologi e agli esperti di letteratura cinese che lo bollavano come un romanzetto spazzatura di stampo pop.
Il fatto è che negli ultimi anni, per quanto riguarda la letteratura, la Cina sta cercando di diventare pop, di raggiungere cioè un bacino di utenza più ampio, il che non va necessariamente a discapito della qualità. Nel 2012, lo scrittore cinese Mo Yan ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura grazie all'"allucinante realismo" delle sue opere. Eppure, l'autore di Sorgo Rosso ai più rimane ancora un illustre sconosciuto, tanto che le vendite dei suoi libri non vanno di pari passo con l'onorificenza ricevuta né con gli ingenti investimenti che la Cina sta elargendo per promuovere la propria cultura all'estero. Sarà che il nome dell'autore Mo Yan (che in realtà è lo pseudonimo di Guan Moye) significa "non parlare" e, si sa, a volte nomen omen?
Ma un colosso come la Cina non si dà per vinto facilmente: non solo gli investimenti in campo finanziario volano, ma da alcuni anni anche quelli in campo letterario hanno iniziato a decollare, sebbene più difficilmente rispetto ai primi. Secondo lo Shanghai Daily, nel 2015 sono stati venduti all'estero i diritti di più di 10.000 libri ma, nonostante gli sforzi dei maggiori editori cinesi e una delegazione di 500 persone al Book Expo America del 2015, dove la Cina era l'ospite d'onore, solo una minima percentuale di quei 10.000 titoli è stata tradotta e ha raggiunto le librerie europee e statunitensi. Che la cultura straniera spaventi, soprattutto una di quelle inimmaginabilmente lontane dalla nostra, l'ho capito subito quando decisi di dedicarmi allo studio delle lingue orientali. Ma ho compreso anche che, per essere scoperta, una cultura ha bisogno che le armi dello stereotipo vengano riposte, tutte insieme, in una cassapanca, e lì dentro rinchiuse. Perché non si può leggere una cultura altra dalla propria attraverso lenti italiane, europee, insomma occidentali in generale? Il lettore non cinese deve, ad esempio, prendere atto che il testo proviene da un background culturale e sociale assai diverso dal proprio.
Ovviamente, esiste anche un risvolto meno romantico della questione: tra le motivazioni della spinta alla traduzione e all'esportazione delle proprie opere letterarie, si cela la volontà di Pechino di contrastare l'egemonia culturale occidentale. Per questo, nel 2006 il governo cinese ha varato un piano quinquennale per lo sviluppo culturale e la pubblicazione di opere cinesi all'estero. Cosa che, recentemente, ha portato il Dragone a rivolgersi anche all'Africa, intessendo relazioni diplomatiche attraverso l'esportazione della letteratura. I problemi, tuttavia, non mancano: ad esempio, la scarsità di traduttori dal cinese alle lingue africane, il fatto che molta letteratura cinese tradotta provenga da case editrici europee o americane e non direttamente dalla Cina, ma anche la mancanza di una vera e propria industria editoriale in molti stati africani.
Inoltre, come sottolinea Karin Betz, traduttrice in tedesco de Il supplizio del legno di sandalo di Mo Yan, ciò che gli editori occidentali cercano è una sorta di Murakami cinese, uno scrittore pop in grado di vendere sul mercato globale e che ambienti i propri libri in un contesto moderno. Ma i romanzi di Murakami (se non li avete ancora letti andate a ripescare, tra gli altri, Norwegian Wood, Kafka sulla spiaggia, L'uccello che girava le viti del mondo), non sono essi stessi intrisi di cultura giapponese? Non è forse Shanghai Baby figlio di quella cultura cinese che, sebbene in continuo cambiamento e in una Shanghai occidentalizzata, ha dato vita ai romanzi di Mo Yan e, nel XVI secolo, ha ispirato Wú Chéng'ēn a scrivere classici come Il viaggio in Occidente (da cui, nel 1984, il giapponese Akira Toriyama ha tratto ispirazione per il personaggio Son Goku in Dragon Ball)?
Forse, davvero, abbandonare le lenti occidentali e i pregiudizi è l'unico modo per connettersi con una cultura straniera. E la letteratura in traduzione è un ponte da attraversare. Del resto, come osserva lo studioso Li Mingjiang, ricercatore presso la S. Rajaratnam School of International Studies della Nanyang Technological University, "la distribuzione della letteratura cinese all'estero è un mezzo per coltivare un'immagine migliore della Cina e correggere le percezioni errate che spesso ne hanno gli stranieri".
Fine cui potrebbe contribuire anche il Sino-Italian Film Culture Development Fund, piano quinquennale nato durante la 73a Mostra del Cinema di Venezia, che prevede l'investimento di circa 600 milioni di euro a favore di giovani cineasti italiani e cinesi.
Scritto da Marcella Sartore - Communication & Marketing Assistant @ Athena Parthenos